Ieri ho perso il controllo.
Che poi anche ad analizzare l’espressione, perdere il controllo, io che detesto i modi di dire, le frasi fatte, i percorsi già tracciati e i tramonti infocati e le albe livide -si veda a tal proposito il post precedente-, che poi finisce che mi chiedo: ma che espressione del cazzo. Perdere il controllo. Che presuppone che il controllo ce l’abbiamo sempre, che è quella la condizione giusta per questa nostra vita, avere il controllo e tenerlo al guinzaglio, come un cane riottoso, uno di quegli orrendi mastini sbavosi che si tirano in avanti come se ad ogni passo dovessero piantarsi a terra, che poi dove vuoi che volino, con quel fisico là che si ritrovano.
Qualcuno ha mai spiegato la gravità a un molosso?
Comunque io ho perso il controllo, e lo scrivo qua, in questa mia nuova vita dove nessuno, o quasi mi legge. Perché sì, prima avevo un’altra vita dove raccontavo cose carine, cose vere eh, narrativizzate, ok, sicuramente. Comunque cose vere, piccoli fatti, riflessioni su di me, su mio figlio che si chiama Ettore e ha sette anni. Ed erano tutte cose tenere, o divertenti, o buffe, come le cose che ti accadono quando ti ritrovi a relazionarti con questi essere umani e i loro movimenti, sempre diversi. Però, ecco, quello di cui mi sono resa conto nel tempo, con i miei piccoli racconti, sempre tutti veri benché eccetera eccetera, quello di cui mi sono resa conto è la profonda bidimensionalità del tutto -ossimoro, lo so- quest’immagine bidi di una madre e un figlio e il loro mondo.
Al parco, a casa, a scuola.
E mi è anche cominciata a stare stretta questa bidimensionalità, così stretta che ho sentito di dovere smettere, non di scrivere o di organizzare il pensiero scrivendo -perché questo è per me scrivere, organizzare il pensiero- però di scriverlo là, in quel modo, su quel mezzo sul quale mi ero data una linea precisa. Mai appesantire. Però ecco, il risultato della mia linea erano poi due personaggi da fumetto di quelli rassicuranti, io e mio figlio che giriamo il mondo, e tutto va bene.
E invece no, siccome scrivere mi serve per organizzare il pensiero finiva che diventavo quello, veronicabidi, una cosa alla base della pnl -che tanto mi disgusta- forse adesso che ci penso, in ogni caso avevo bisogno di un mezzo diverso, di un anonimato anche totale -ho statistiche di lettura su questo blog che stanno sulle dita delle mani (una mano, ok: una)- che mi permetta di dire quello che cerco di dire oggi.
Ieri ho perso il controllo. Ero stanca, provata da una trasferta fuori città per lavoro, dall’avere visto troppa gente -io quando vedo troppa gente finisco come quegli elettroni impazziti che saltano di orbita-, e così alla prima cosa che è successa ho perso il controllo, ho perso quel mastino sbavoso che tutti noi teniamo alla catena, e ho cominciato a urlare, ho urlato a mio figlio, gli ho urlato di tutto per una giacca che scorda sempre, a casa a scuola ovunque lui vada, ho urlato e urlato e urlato, in un parcheggio enorme pieno solo di macchine e io che urlavo, e poi l’ho seguito verso la piscina sempre urlando, ho urlato così tanto che sentivo che avrei potuto buttare giù la struttura della piscina. E gliel’ho anche detto, a mio figlio. Guarda che se non ti regoli mi rimetto a urlare e tiro giù tutto.
E questo è quanto. Questa è anche la mia vita, a equilibrare l’altra, quella di prima. Tutta parchetti e momenti di riflessione. La mia vita da urlatrice.
Perché a dirla, questa vita da urlatrice, forse poi quando ti accade ti devasta meno. Perché io da ieri pomeriggio è così che mi sento. Devastata.
[l’immagine non c’entra niente mi sa. ma mi piaceva. google mi dice che è di Robert Parkeharrison, ma se è vero. questo non lo so]